Leggere Alice Munro è un viaggio, uno spostamento, anche minimo, un trasloco forse. Un viaggio nella provincia canadese con qualche tappa a Vancouver e Toronto; è spesso un viaggio in treno, in autobus, un viaggio che sfiora villaggi Mennoniti, che lambisce campagne, villette; un viaggio verso tutto quello che avrebbe potuto essere e non è mai stato, un viaggio di rimpianti, un viaggio per liberarsi da qualcosa, un viaggio che riporta al punto di partenza; un precipitare in quel luogo senza speranza che è quello del nostro fallimento definitivo. Il precipitare è lieve, quasi impercettibile, e la possibilità risollevarsi è solo intravista, mai reale.
I personaggi di Alice Munro la loro occasione l’hanno avuta, anche solo per brevissimo tempo, ma se la sono giocata, oppure non l’hanno saputa cogliere, tornare indietro appare impossibile, sebbene la speranza che qualcosa possa girare al meglio ogni lettore la conserva fino alla fine. Soltanto l’amarezza resta. Certe volte il motivo del fallimento sono le scelte sbagliate, qualcuno che si accanisce contro di noi, oppure sono gli Scherzi del destino, come recita il titolo del racconto che parla di un incontro che avrebbe potuto essere risolutivo per la vita della protagonista: un’infermiera non più giovanissima che si occupa della sorella non autosufficiente; malgrado una possibilità intravista, un fraintendimento condannerà invece la protagonista alla solitudine.
Le storie sono raccontate attraverso un naturalismo asciutto, che contiene snodi imprevedibili dove quel che è successo o succederà è spesso fuori campo, camuffato, eluso, sottinteso, liquidato frettolosamente. Quel che resta sono le ferite, l’enigma è l’unica verità con cui fare i conti e, se qualcuno sa, non dice, oppure dice quel che non serve. Noi che leggiamo compulsivamente Alice Munro ci troviamo ad abitare quelle case infelici, a camminare su quelle strade di campagna dove non succede mai niente, siamo nel luogo e nel tempo del racconto e ci riconosciamo nella sua desolazione pur vivendo a migliaia di chilometri di distanza.
Gli uomini sono esseri abietti e narcisisti, padri violenti, assenti, mariti traditori, amanti distratti; le donne non sono però da meno: ripiegate su se stesse, infelici, paralizzate, crudeli. Le vite si sbirciano dal buco della serratura o da una finestra socchiusa, la libertà non esiste, ognuno sembra percorrere un sentiero già tracciato da generazioni, ognuno sembra incapace di potersi salvare.
Munro cresce in una fattoria dell’Ontario, scenario della maggior parte dei suoi racconti, che in parte attingono alla vita delle persone che la circondano. A un certo punto si ritrova accudire la madre, precocemente malata di Parkinson, e il padre, il quale da piccola la prendeva a cinghiate. Ha scritto quattordici raccolte di racconti, a cominciare da “La danza delle ombre felici” per finire con “Uscirne vivi”, che contiene, sul finale, un capitolo dal titolo appunto: Finale, che è la prima cosa autobiografica mai scritta, si tratta di quattro capitoli sulle prime e le ultime cose di lei, fondamentali per capire, a mio avviso, la scintilla da cui scaturiscono le sue storie. “La vita delle ragazze e delle donne” è il suo unico romanzo e forse il più autobiografico.
Munro sostiene che le donne sanno scrivere solo di cose marginali, mentre sono gli uomini a scrivere il grande romanzo, eppure nel 2009 riceve il Booker prize per l’intera opera, la motivazione è che in ogni storia lei giunge a una precisione e una profondità che altri autori non raggiungono nell’intera opera.
Munro non lo ha mai sospettato ma, proprio per questa profondità che ha saputo raggiungere, è un mostro. Tra le qualità che servono per guadagnarsi la vita con l’arte c’è sicuramente una buona dose di egoismo, oltre al talento, egoismo per isolarsi da famiglia, figli, amici, per non partecipare alle loro vite e rubare le loro storie, questo è sufficiente per una donna, a cui si richiede dedizione alla famiglia e accudimento dei figli, per essere mostruosa. È invece scontata l’assenza per un uomo, addirittura necessaria. Però gli artisti maschi fanno un passo ulteriore nella mostruosità, ovvero riguardo ad alcuni di essi sono emersi tratti davvero mostruosi (si pensi a Roman Polanski, Woody Allen, Pablo Picasso…), tanto da mettere in discussione la loro opera da un punto di vista etico. Per le donne l’abiezione si manifesta a massimo con atti di autolesionismo (si pensi a Sylvia Plath, Anne Sexton, Virginia Woolf), mai con la violenza verso gli altri. Invece in questo primto maschile, ancora una volta, Alice Munro, scrittrice profonda e pluripremiata, fa la differenza. Le recenti notizie riguardo alla figlia la collocano a pieno titolo nelle schiere dei veri e propri mostri e pongono noi lettori all’interno del dilemma se sia lecito o meno continuare ad amare la sua opera. Ma cosa ha fatto Munro per tutta la vita se non raccontare di personaggi meschini, indegni, abietti e attraverso di loro costringerci a guardare la parte peggiore di noi? Dovremo quindi negare e rimuovere quella parte invece di prenderne atto? Io credo che il viaggio nella letteratura di Alice Munro sia un viaggio che valga la pena intraprendere, invece, perché l’arte non deve impartire una lezione, l’arte deve disturbare e in questo l’opera di Munro è impareggiabile.