I giorni di vetro è un romanzo dove i nuclei centrali sono l’avventura, l’amore e la guerra; un melodramma che pone il lettore di fronte a nodi umani riconoscibili e strazianti. Il filo conduttore, in un arco temporale che va dall’avvento del fascismo alla liberazione, è la Storia, in cui si inseriscono le vite delle persone, che da un lato la subiscono, ma allo stesso tempo hanno il potere di influenzare il corso degli eventi, in particolare in una terra, la Romagna, dove in un primo momento erano tutti fascisti, per poi passare dalla parte dei partigiani.
È un romanzo d’amore, questo, perché l’amore muove le protagoniste, ma è un amore terreno, ruvido, non esente dalla violenza, un amore in assenza di sentimentalismo. Infatti non siamo in presenza di un romance, semmai un novel: un romanzo che parla di fatti poco noti con passione, ovvero con amore, perché l’altro tema centrale, quello che sembra regolare le vite di tutti, è la violenza, che è strettamente vincolata alla passione, e il fascismo è, in effetti, una metafora della violenza umana.
Abbiamo due protagoniste: la prima è Redenta, la cui storia prende gran parte del romanzo. Nata in Romagna nel giorno del delitto Matteotti, lei è la prima figlia, dopo tre fratelli nati morti; il guaritore che le permette di restare in vita sentenzierà la sua scarogna. Verrà chiamata la purina, resterà storpia, con una gamba matta per via della polio, remissiva e silenziosa, la famiglia crede sia muta per i primi anni di vita, non avrà fortuna per sé, ma avrà pietà per gli altri. Padre fascista inferocito, madre ruvida che, quando Redenta è molto piccola, finisce in galera. Viene allevata dalla nonna, la Fafina, infermiera e levatrice con una casa piena di orfani, tra cui Bruno, che le promette di sposarla, ma poi scappa. Verrà data in moglie a un crudele fascista soprannominato Vetro con cui sperimenterà l’orrore, e proprio tramite Vetro entrerà in contatto con Iris.
La seconda protagonista: Iris, quando entra in scena, sembra aprirsi uno squarcio di luce. Nasce in un borgo felice, a Tavolicci, dove la madre va ad aprire una scuola, e finisce in città a servizio di una coppia di marchesi dove incontrerà Diaz e la sua vita subirà una svolta decisiva e irrevocabile, oltre che drammatica, quando si unirà alla lotta partigiana.
Il romanzo racconta queste due vite all’apparenza diverse, che per un periodo storico molto concitato e crudele s’incrociano, fino quasi a diventare due volti della stessa creatura.
Le due sono costrette a sfiorarsi per alcuni giorni, dopo i quali resteranno legate fino alla fine. E altrettanti sono i personaggi che le metteranno in relazione: Diaz e Vetro, diversissimi, ma simili nel loro modo di vivere la storia seppur agli estremi.
Un aspetto, malgrado le differenze, caratterizza tutti i personaggi, ed è che arrivano sempre a un punto di rottura. Sono così tante le perdite subite da ciascuno che a un certo punto prevale il disinteresse per la vita, questo capita a Iris dopo la terribile notizia della strage di Tavolicci, a Redenta dopo le violenze subite e l’incontro con Iris, capita alla Fafina, capita alla madre di Redenta.
Oltre a Diaz e Vetro, che saranno i punti di congiunzione tra le vite delle due protagoniste, c’è un sentimento profondo che le anima, ed è la pietà, che pervade tutta la narrazione, assieme al destino che in parte sembra ineluttabile e in parte nelle nostre mani. Oltretutto Redenta, proprio per la sua natura di scarognata, è in continuo dialogo coi morti, come se fosse lei il ponte tra il mondo dei vivi e quello dei morti, un personaggio che sfocia quasi nel realismo magico.
Le protagoniste sono coraggiose, ma non sono eroiche nel senso maschile del termine, nessuna delle due sceglie la violenza sugli altri a cui preferisce il sacrificio personale per la salvezza altrui. Perché è la pietà e la carità ad animarle, non la violenza.
Le lingue sono due, quella di Iris, che ha studiato, quella di Redenta invece è il dialetto, usa parole come: strancalato, vettole, scapuzzato, braghira, quaioni, sgumbiati, invornita, gazzamaia. Le due voci sono ben distinte sin dall’inizio, eppure a un certo punto del romanzo, come le loro vite, sembrano fondersi.
Il patriarcato è profondamente radicato in queste storie, tanto che nessuna donna è mai libera, perché la violenza della guerra è anche violenza sulle donne. Eppure di figure femminili forti ce ne sono: la madre Adalgisa che accoltella il padre, la nonna Fafina, che in casa comanda lei, Vittoria, la sorella emancipata di Redenta che va a studiare a Firenze. Lei più, di tutte, somiglia alla nonna, infatti prende una strada diversa. Dichiara che non è necessario fare figli, è la donna più moderna, a cui resta appesa la fiammella della speranza.
Tra i principali fatti storici che s’innestano nelle vite dei protagonisti c’è l’avventura coloniale, raccontata nella sua efferatezza: il padre di Redenta e Vetro s’incontrano nelle colonie. A testimonianza di questa esperienza c’è una testa di donna che Vetro si porta a casa e che Redenta deve tener pulita, tra le due nasce addirittura un assurdo rapporto. Poi c’è la strage di Tavolicci, cruenta e poco nota. L’altra è la riunione dei gerarchi fascisti al Gran Hotel Terme di Castrocaro del settembre del ’43, in cui si istituisce la Repubblica di Salò e il conseguente attentato dei partigiani che, se solo fosse andato in porto, la storia avrebbe preso un altro corso. In questo romanzo però non c’è traccia di ucronia, tutto va come deve andare: fatti veri e finzione sono perfettamente integrati, quello che invece è interessante è come queste vicende siano narrate dal basso, ovvero dai protagonisti più umili. Non sorprende infatti che, a un certo punto, in un dialogo, un personaggio dica: è una questione privata, è infatti evidente quanto Fenoglio sia felicemente nascosto tra queste vite semplici segnate dalla Storia.