È necessario trovare coerenza tra l’opera dei nostri artisti preferiti e i loro comportamenti? Deve il giudizio etico sulla persona inficiare il valore dell’opera?
Queste e altre domande sono alla base del saggio di Claire Dederer nato da un suo articolo apparso sulla Paris Review, scritto sull’onda del #meToo.
Tra le qualità che servono per guadagnarsi la vita con l’arte c’è sicuramente una buona dose di egoismo, oltre al talento, egoismo per isolarsi da famiglia, figli, amici, per non partecipare alle loro vite e rubare le loro storie, questo è sufficiente a una donna, a cui si richiede dedizione alla famiglia e accudimento dei figli, per diventare una persona mostruosa. È invece scontata, anzi necessaria, l’assenza dalla vita familiare da parte di un uomo.
Il genio richiede isolamento. Se sei Nabokov c’è Vera che ti lecca i francobolli, ti apre l’ombrello e ti rilegge le bozze. Olga, la moglie di Pasternak, mandava messaggi cifrati all’editore e andò nel Gulag al posto suo. Fitzgerald si è potuto permettere di liquidare sua figlia, dicendole che la considerava un peso morto e non aveva energie sufficienti per occuparsi di lei.
Ma gli artisti maschi fanno un passo ulteriore nella mostruosità. Molti di questi, in qualità di “geni indiscussi”, si pensa abbiano un diritto speciale, un lasciapassare comportamentale che li faccia obbedire a regole proprie del genio stesso, e non della persona comune.
Il viaggio che compie l’autrice passa attraverso la condotta di artisti come: Roman Polanski, Woody Allen, Michael Jackson, Ernest Hemingway, Richard Wagner, Carl Andre, Raymond Carver, Miles Davis, Pablo Picasso; che, a vario titolo e con diversi livelli di gravità, hanno compiuto atti deplorevoli nei confronti delle donne e del prossimo in genere.
Invece, pensando alle figure di artiste, l’abiezione si manifesta al suo massimo grado con il mancato accudimento dei figli, come nel caso di Doris Lessing, oppure con altrettanto deprecabili atti di autolesionismo (si pensi a Sylvia Plath, Anne Sexton, Virginia Woolf), quasi attraverso la violenza sugli altri.
La domanda, ulteriore, è se debba la loro opera essere messa al bando in quanto prodotta da persone orribili.
La risposta di Dederer parte dall’io (inteso come soggettività della critica), e la sua difficoltà a raggiungere un giudizio estetico obiettivo. L’autrice denuncia le proprie inclinazioni e ammette che sono i gusti personali, le passioni, a guidare il suo lavoro; inoltre, paragonando l’amore per l’opera d’arte a quello per le persone, giunge alla conclusione che, nella nostra vita privata, non smettiamo di amare le persone che ci hanno fatto del male solo perché sono persone orribili. L’amore è caos e come tale va inteso l’amore per l’arte.
Pur riconoscendo i crimini di cui si sono macchiati gli artisti presi in esame, il tentativo è quello restare sul valore dell’opera, intesa nel suo merito specifico e non come “opera struggente di un formidabile genio”. La discussione va fatta, però spogliando l’artista dell’aura di sacralità. Bisogna disinnescare il fenomeno del fanatismo che fa coincidere la biografia dell’artista con l’opera, perché solo scindendo le due cose si può continuare a fruire dell’arte sentendosi, fino in fondo, appartenenti al genere umano, che è quello che sente l’autrice guardando Io e Annie, Rosemary’s Baby, o ascoltando Kind of blue, sensazione a cui non può rinunciare, pur ammettendo che gli autori di questi capolavori hanno commesso azioni orribili.