Se si conosce il mondo attraverso il corpo, il nostro corpo ha un’influenza decisiva sui processi cognitivi ed è sede di desiderio, divieti, condizionamenti, aspettative. Nel suo ultimo libro Lidia Ravera si interroga su questo punto partendo dalla sua esperienza personale. E così l’esperienza dell’essere donna, che ha a che fare con un livello performativo che ci chiede di essere graziose, desiderabili, di non invecchiare, questo codice, diventa lingua madre, si stratifica nei nostri gesti e diventa un modo di pensare e di percepirsi. Perché certe esigenze che vengono dal mondo fuori si sedimentano così tanto da diventare richieste che facciamo a noi stesse. Ne consegue che se le donne potessero farne a meno, potrebbero recuperare il senso del gioco. Dal momento che il corpo è il luogo dei condizionamenti, se potessimo rinunciare a molti di questi, come l’essere sempre in ordine, impeccabili, smettere di pensare a come ci poniamo esteticamente nei confronti del prossimo, a come ci guardano, potremmo immaginare altre forme di libertà.
“Volevo essere un uomo” è un’autobiografia, un bilancio, ma anche lo spaccato di un’epoca, riflessione amara e lucida sul proprio sé inserito nella storia; è esattamente inquadrare la propria esperienza personale all’interno di un’epoca storica e nella storia del femminismo, ma è soprattutto una confessione, complice il tu, che mira a una resa dei conti interiore per poi dilagare nell’inconscio collettivo.
La narrazione prende il passo da una prospettiva personale: l’essere frutto di un errore, annunciatole dalla madre con candore e crudeltà. Il nodo è il rapporto con i genitori. Ci si ritrova subito, senza mediazioni, accanto alla voce narrante, dentro la sua storia. La madre, sempre preda di crisi di nervi, si prende la briga di segnalare che lei è frutto di una gravidanza indesiderata e almeno, visto che la femmina c’era già (la sorella), lei avrebbe potuto nascere maschio… ma nella testa della voce narrante “potuto” si trasforma in “dovuto” e d’improvviso si decreta il futuro disagio e la necessità di scrivere come strumento per indagare il mondo.
La prima parte del libro procede per accumulo di dettagli, alla maniera di Perec, come un album di ricordi dove però si evidenziano, a partire dalle memorie della ragazza nata negli anni ’50, le inquietudini e le paure instillate nelle donne dal punto vista del contesto sociale, assieme a un forte desiderio di libertà. Ravera adolescente si ritrova dinanzi a forti limiti dettati da pericoli reali e percepiti, e gli insegnamenti che riceve sono avvertenze, paure, rifiuti. Si procede in parallelo tra storia personale e storia italiana del dopoguerra: il boom economico, i movimenti, fino al presente.
I maschi guardano, le donne devono essere guardate, i tormenti che ne derivano (attenzioni ricevute, pericoli, senso di inadeguatezza) portano la protagonista a non sentirsi adeguata, anzi peggio a cercare quell’omologazione tipica di chi sa di essere più debole.
Si sente stretta nel ruolo di donna/contenitore, nata per procreare, emerge l’esperienza di una donna cresciuta negli anni ’50 e la sventura di esserlo.
Vedere i privilegi dei maschi e le sventure delle femmine è una condanna. Chi, per partito preso, vorrebbe far parte della categoria delle “cretine” che debbono essere guardate? Allora sarebbe bene rivendicare il diritto di essere più brutte, constata Ravera con la franchezza e la spietatezza che sono la cifra di tutto il libro.
Voler essere un uomo significa assecondare il proprio desiderio di dominio, come le donne che hanno fatto successo parlando la lingua degli uomini. Le donne vengono giudicate in base alla bellezza, al sex appeal e all’aspetto, nell’uomo questo non ha importanza. La bellezza è il teatro dell’asservimento, in “Due pesi e due misure”, Susan Sontag mette a confronto la vecchiaia femminile e quella maschile. Ma perché la vecchiaia maschile è rispettata e quella femminile è stigmatizzata?
Gli uomini vivono nel mondo della cultura, si giocano la carta del talento, ironia, furbizia; la donna viene schiacciata sulla natura, sulla procreazione e, quando si inaridisce la sua funzione riproduttiva, lei è fuori dai giochi.
Chi non vorrebbe appartenere alla casta che ha più privilegi?
Io preferisco essere donna, ma vorrei essere un uomo, risponde l’autrice.
L’esito auspicabile sarebbe non voler essere uomo, non volere l’uguaglianza, ma tendere alla differenza, ai due sguardi diversi sul mondo, senza ordine gerarchico, però quello che resta è un forte senso di disagio perché il processo è incompiuto e resta solo lo sfogo della scrittura per dar voce alle proprie inquietudini.

Di Muriel

Nata a Imola, dove forse (spero il più tardi possibile) morirò. Ho una laurea in storia dell'arte ma lavoro nel settore della formazione. Mi piace scrivere e leggere. Ho pubblicato La discarica degli acrobati sbadati (Giraldi 2011), Veduta di pianura con dame (Edizioni La meridiana 2015), Fermata al tramonto con cimitero (Augh! 2017); ho partecipato al romanzo collettivo Il libro delle vergini imprudenti (Navarra 2014); alcuni miei racconti sono apparsi in antologie e riviste, ho scritto due testi per il teatro. Ho un interesse speciale per le autrici e le loro personagge. Di recente ho scoperto di essere sia bibliomane sia bibliofila, abbinata che mi inserisce nel novero delle accumulatrici disordinate di libri e letture. Certe volte m’incuriosisce talmente tanto un’autrice che tendo a immedesimarmi nella sua storia tanto da volerla raccontare. Sarebbe difficile vivere senza le cose belle e inutili che (per me) sono: la letteratura, il cinema, il teatro e le arti visive. Con questo sito vorrei mettere ordine.