Il perturbante quotidiano di Samanta Schweblin
La incontro con il romanzo Kentuki, una sorta di distopia contemporanea in cui impazza un fenomeno planetario costituito da pupazzi elettronici a forma di panda, corvi, draghi, topi, conigli, dotati al loro interno di un software, ruote per spostarsi, sensori e una telecamera.
Si può scegliere di averne uno che diventa un angelo custode, ma anche una spia che segue ogni nostro movimento. Gli esseri umani che li possiedono sono indissolubilmente legati ai loro Kentuki, oppure Kentuki si può divenire, sentendo e vedendo come uno di loro e in un mondo spietato e crudele si muovono questi pupazzi accanto alle storie dei loro possessori. Nel mondo in cui il Kentuki si diffonde in maniera virale il suo possesso diventa un’esigenza fondamentale, ma poi succede che alcuni lo amino, altri inizino a detestarlo, resta che tutti indistintamente, ne restino schiavi. Il romanzo sembra voler rispondere alla domanda per cui questi pupazzi diventano così insostituibili. Ogni personaggio, infatti, ha un motivo che lo spinge, ognuno una solitudine, una disfunzione, qualcosa che s’inceppa e avere un Kentuki sembra la risposta sbagliata a una giusta domanda di solitudine. La narrazione appare frammentaria, formata da storie indipendenti le une dalle altre che vengono iniziate, sospese e riprese, procedendo in parallelo.
Devo dire che di questo romanzo mi ha colpito più l’idea che per il risultato, mi è parso pervaso di buone intenzioni un po’ sospese; eppure ho deciso di dare una seconda possibilità a quest’autrice, senz’altro originale, e sono passata a Distanza di sicurezza, romanzo breve che aggiunge, alla distopia, il tema del perturbante; è la storia di un passaggio di anime.
La voce narrante è Amanda, una donna che, in un letto di ospedale, vaneggiando, cerca di ricostruire una vicenda, che è quella che coinvolge la vicina di casa Carla e il figlio David, coetaneo di Nina, la figlia di Amanda. David s’infortuna in modo misterioso e la madre, invece di portarlo dal medico, lo porta da una strana “fattucchiera” e da quel momento il bambino si salverà ma assumerà un carattere completamente diverso. I contatti e l’amicizia tra le due famiglie porteranno Amanda a perdere la distanza di sicurezza nei confronti di sua figlia, che definisce in questo modo all’inizio del romanzo: “La chiamo distanza di sicurezza, così definisco la distanza variabile che mi separa da mia figlia, e passo metà del tempo a calcolarla, anche se poi rischio più del dovuto”. Il romanzo, che ha i ritmi del thriller, ruota attorno ai temi della maternità e della contaminazione dell’ambiente in cui viviamo, ma introduce una certa idea di sovrannaturale legata all’impossibilità di governare le nostre vite e alla necessità di affidarsi, di tanto in tanto, al magico. Sicuramente questa lettura mi ha convinta più di Kentuki e altrettanto convincente ho trovato il film omonimo, uscito nel 2021 per la regia di Claudia Llosa, ispirato al romanzo e fedele nella ricostruzione.
Sono allora passata alle novelle, che ritengo la sua forma più congeniale e originale e che attinge alla tradizione di Cortazar, Flannery O’Connor, Lucia Berlin. In particolare Sette case vuote e Uccelli vivi. Però Sette case vuote si smarca dal perturbante per affidarsi a una quotidianità minimalista fatta di gesti consueti e famiglie piccolo borghesi le cui vicende sono legate alle case o, meglio, nelle case vuote resta la traccia di chi le ha abitate.
Però qui il perturbante lascia il posto alla follia del quotidiano, al proprio essere fuori posto nel mondo, e alla distanza fra il sé e il mondo.
Infine Uccelli vivi torna al perturbante, che è la sua cifra, quella che dà risultati più “felici”. Si potrebbe anche parlare di realismo magico, però contaminato dall’horror e dalla distopia; in particolare rispetto all’inquietante racconto che dà il titolo alla raccolta.
È la stessa Schweblin a scrivere un’illuminante introduzione alla raccolta, dove spiega che i racconti nascono da immagini che le sfilano sotto gli occhi nella quotidianità, o episodi che le vengono raccontati, che spesso scrivendo unisce fatti parecchio distanti, trovando però un incastro nella scrittura, aggiunge che lei stessa scrivendo impara qualcosa di nuovo su quei fatti e conclude dicendo che la prima stesura di un racconto è quasi sempre da abbandonare, ma è una traccia per quello che il racconto vuol dire all’autore. Si giunge poi alla conclusione che scrivere rivela la stranezza del mondo e prima di scrivere questi racconti, tra i primi della sua carriera, non sapeva di essere così tanto interessata all’impensabile, a ciò che improvvisamente accade, alla stranezza della realtà e alle curiosità che assalgono quando si assiste a una scena che ha molti punti da chiarire, ma sono stati i racconti stessi indicarle la sua strada.