Siamo nel 1970, l’ambiente quello del biellese, una città piccola ci si conosce tutti, nelle vicinanza c’è il bosco e la montagna; un luogo fondamentalmente rurale,
segnato dalla presenza del lanificio, unico inserto industriale che si va a inserire in un contesto ancora distante dal progresso, sullo sfondo una Torino chimerica che attira e respinge i personaggi che popolano il romanzo: famiglie dimesse che vivono nel miraggio di qualcosa di meglio, confortate ma anche confinate in provincia e in fondo tese verso il miglioramento sociale. Silvia fa la maestra, ha 42 anni, una mattina esce di casa, prende il giornale e invece di andare a lavorare va nel bosco e qui la narrazione, piuttosto realistica nel complesso, inizia a sconfinare nella fiaba. Nel giornale c’è la notizia del suicidio di una sua allieva, Giovanna. Silvia è una donna venuta su in un convento di suore, “che non ha mai avuto un rapporto né con un uomo né con sé stessa, se si escludeva qualche goffaggine rara e inconcludente”, attaccata al suo lavoro, che sente come una missione.
Il richiamo del bosco è dovuto al dolore per la scomparsa della ragazza ma anche per la propria solitudine, nel bosco la vita viene intrappolata in un limbo allucinatorio tra la vita e la morte, fatto di ricordi e di momenti di ritorno alla realtà, il bosco accoglie le sue inquietudini.
Entrare nel bosco, per Silvia, può sembrare un atto di annullamento, ma può essere anche la scelta dell’eremita, quell’astrarsi dal mondo per raccogliere i pensieri, allontanarsi da tutto per vedere meglio.
E, appunto, alla notizia della scomparsa di Giovanna, alunna un po’ precoce e un po’ “svogliata” (morta suicida gettandosi dalla finestra direttamente nel torrente), Silvia sente che la sua missione è fallita, perché aveva colto un pericolo per Giovanna, in lei aveva visto un equilibrio instabile e aveva tentato di porvi rimedio, ma evidentemente aveva fallito. Perciò caduta in questo vortice della sconfitta, camminando si ritrova nel bosco, sola senza nulla, in un ritorno alla natura che è quasi un tentato suicidio e un rifugio nell’inedia. A un certo punto Silvia, nel bosco, trova un capano e ci resta per giorni. La vita di Giovanna e quella di Silvia prendono in qualche modo una strada simile, inspiegabilmente entrambe scompaiono, e loro famiglie restano sospese, una nel lutto l’altra nell’affanno della ricerca. Qui interviene la figura di Martino, bambino che vive solo con la madre, proviene da una famiglia trasferitasi da Torino, il padre continua a lavorare in città e torna da loro solo durante fine settimana. Martino nel bosco trova Silvia, la soccorre con tenacia e pian piano prepara il suo rientro nel mondo. È grazie a Martino, al suo riserbo, e alla sua delicatezza che Silvia si salva. Martino, più che altro, ricorda a Silvia l’urgenza della vita.
Oltre a questi tre protagonisti, durante la narrazione, sfila una galleria di personaggi che ruota attorno alla maestra: gli alunni, i conoscenti, la famiglia; un romanzo corale che ricorda i racconti di Fenoglio e Natalia Ginzburg de Le voci della sera, La strada che va in città, Tutti i nostri ieri, storie di persone che vivono una condizione limitata ma anche grandi ambizioni che li portano a sentirsi stretti nel loro mondo, come se i due eventi tragici avessero scatenato le forze sopite di un mondo che pareva immobile, mettendo in luce desideri e rapporti tra passato e presente dei personaggi le cui vite intrecciate e isolate si mescolano e si complicano.
Da Martino che è arrabbiato con i suoi per il trasferimento, a Giovanna, che non si ritrova nel corpo che cambia, a Giulia, nipote di Silvia, angosciata dalla sua sparizione, arriviamo a Suor Annangela, cara amica di Silvia, che non si dà pace per le due sparizioni.
Anselmo, in cugino di Silvia e la moglie Luisa con la nonna Gemma sono tutti alla forsennata ricerca.
E infine la famiglia di Martino con il padre assente e la madre che lavora al maglificio e che non sa cosa vuole e Gianni, lontano cugino amico di Lea e martino, che lavora al maglificio ma in fondo è un intellettuale.
Le loro vite compongono un quadro fatto di fragilità e pensieri sottili, di difficile aderenza alla realtà; di imperfezioni e difetti con cui ciascuno convive.
Sono le voci dei ragazzi, così verosimili, a cui è affidato il compito di guardare la realtà da una prospettiva nuova. Le voci dei bambini sono credibili, ovvero i bambini parlano come bambini, non come falsi adulti, conservano la loro qualità innata: uno sguardo che riconduce tutto a una logica schiacciante, a rivedere i paradigmi del mondo con una nuova lucidità, ad adottare prospettiva insolita e profonda, saper porre le domande giuste, essere diretti, avere un modo lieve e onesto di affrontare tutte le questioni. E allora viene spontaneo ripensare ad alcuni romanzi di Marina Jarre, soprattutto Negli occhi di una ragazza.
La scrittura de Tornare dal bosco con il bosco condivide la dimensione materiale e primordiale, concreta, è una scrittura che si fa con la polvere, presenta un mondo dove la psicologia è assente, o meglio trapela ma non impera. I personaggi sono fatti di gesti, sguardi, azioni, da cui traspare, lievemente la loro psicologia, che li guida con inconsapevolezza verso i loro desideri, che nemmeno loro stessi sanno spiegarsi, è un mondo antico questo, ci troviamo compiutamente nella fiaba che fa del bosco elemento non di paura, ma di trasformazione.