l'esperienza umana di Letizia Battaglia
Letizia Battaglia non è un’artista, è una fotografa di denuncia; della fotografia ama il potere legato alla testimonianza e allo svelamento. Letizia è un’attivista, ci tiene a precisarlo nel suo memoir “Mi prendo il mondo”, uscito nel 2020, dove si racconta, e dove la narrazione di sé diventa storia sociale, di lotta. La sua però è anche la storia delle donne tutte, della loro emancipazione.
Eppure i suoi scatti non sono privi di una certa estetizzazione dell’immagine, perché malgrado la fretta (talvolta) e le imprecisioni tecniche, c’è sempre un’attenzione alla composizione e agli aspetti metanarrativi che elevano e complicano il livello di lettura dell’opera.
Letizia Battaglia inizia la sua carriera di fotografa a quarant’anni, prima ha fatto quello che normalmente spetta alle donne: la moglie e la madre.
Passa l’infanzia a Trieste, sotto i bombardamenti, dove il padre aveva traferito la famiglia perché aveva trovato impiego nelle navi da crociera. A Trieste Letizia sperimenta la libertà. Dopo la guerra tornano a Palermo, e il legame con questa città non si spezzerà mai, diventando qualcosa di viscerale, innato e necessario, oltre che doloroso e conflittuale, ma comunque indissolubile. Durante la sua vita si sposterà spesso ma a Palermo tornerà sempre.
Il suo primo matrimonio avviene a 16 anni, addirittura a seguito di una “fuitina”. Sposa un uomo che la vuole tenere a casa, che non vuole che studi, che sia indipendente e a 19 anni hanno già due figlie. Dopo qualche anno di questa vita Letizia sprofonda nella depressione e, dopo un percorso di psicanalisi – fatto decisamente insolito per quegli anni –, riesce a prendere il coraggio di lasciare il marito per mettersi col fotoreporter Santi Caleca. Nel 1970 divorzia e si mette col giovane fotografo palermitano, lui ha dieci anni in meno.
Il divorzio per lei è anche la rinascita. Già nel 1969 si era presentata a “L’Ora” di Palermo e aveva chiesto di poter collaborare: prima come giornalista (anche Santi collaborava con il giornale), poi come fotografa. Nel ’69 scatta la prima foto, un giorno d’estate in cui tutti i giornalisti sono in vacanza, si fa prestare una Leica e gira per le strade di Palermo. Fotografa Enza Montoro, una prostituta dalle bellissime mani bianche, a casa sua; aveva la fama di essere amante dei mafiosi, le avevano ammazzato una collega. Letizia s’innamora subito di questa donna devastata.
Sul finire dell’estate arriva tra le sue mani una piccola Minolta che cambia la sua vita. Però, al rientro dei giornalisti, al giornale non c’è più posto per lei, allora con Santi si sposta a Milano per mandare a “L’Ora” pezzi riguardanti siciliani famosi. In seguito inizia a collaborare con “Le Ore”, giornale erotico a cui collaboravano già molti intellettuali, e in seguito per varie riviste. A Milano e si è sentita a casa, indipendente dall’ex marito, autonoma economicamente.
Nel 1972 fotografa Pasolini, al Circolo Turati, le foto le regalerà al centro studi di Casarsa.
Nel 1974, subito dopo lo stupro, fotografa Franca Rame alla palazzina liberty. Poi torna a Palermo e da lì si sviluppa la sua poetica. Con Santi mette in piedi un’agenzia fotografica, ma lui abbandona presto l’impegno e lei si ritrova sola nel periodo più cupo e violento della storia della città: l’arrivo dei corleonesi e l’inizio di una vera e propria guerra civile.
Verso la fine degli anni ’80 viene licenziata dal giornale che attraversava una grave crisi, da lì a poco avrebbe chiuso.
Poco dopo inizia la sua storia con Franco Zecchin, più giovane di lei di diciotto anni, mentre Letizia, a quarant’anni, è già nonna. Stanno insieme fino a dopo le stragi e il periodo del loro sodalizio è il più caldo. Si recano nei luoghi del delitto a scattare fotografie e la macchina è la loro arma. Fotografano, dal primo all’ultimo, i morti ammazzati da cosa nostra, si trovano in un vero e proprio scenario di guerra ma, trattandosi di guerra mafiosa, le loro fotografie riprendono il fatto quando è già avvenuto. Letizia, in quanto donna, viene spesso bloccata, allontanata dalla scenda del crimine, addirittura presa a calci, è un agente di polizia a spianarle la strada, poi caduto pure lui nelle mani della mafia. Il suo modo di fotografare è diretto, senza sotterfugi, vuole che il soggetto, se è vivo, la possa vedere, se è morto lo tratta con rispetto e delicatezza, pur non risparmiando nulla alla tragicità dell’evento. Il suo modo di fotografare è forse impreciso, non tiene conto dell’esposizione, dell’apertura del diaframma, con l’esposimetro in mano è impacciata, la sua fotografia è solo istinto e, come diceva Cartier Bresson, è a la sauvette: fatta in un secondo per cogliere il momento rivelatore, la sua fotografia contiene la vita che scorre.
Tra le tante foto, scatta quella di Andreotti con il mafioso Nico Salvo; è il 7 giugno del 1979 sono all’hotel Zagarella di Palermo, in occasione di una festa in onore di Andreotti, questa fotografia ha rivelato i contatti di Andreotti con la mafia, i negativi sono stati sequestrati dalla polizia e mai più restituiti, a Letizia resteranno solo alcune stampe.
Con Zecchin entra nella Real Casa dei Matti di Palermo, presso la quale scatta foto con grande riservatezza e rispetto, per aprire l’ospedale alla città. Nel 1985 riceve il premio Eugene Smith a New York, il più importante premio per la fotografia sociale, e succede che viene celebrata prima all’estero che in Italia.
A Palermo si impegna anche in politica, con Leoluca Orlando, ma ben presto capisce che questo impegno implica moltissime frustrazioni.
Le stragi di Capaci e via D’Amelio sono le sue foto mancate, quelle che bruciano di più e per le quali si colpevolizzerà per tutta la vita. Dopo Capaci si reca in ospedale sperando di trovare Falcone ancora vivo e invece è già morto, mentre di fronte a via D’Amelio resta paralizzata. Dopo il 1992 cambia tutto, è la sconfitta, finisce anche la storia con Franco. Nel 1994 iniziano i viaggi, deve metabolizzare il fallimento delle lotte antimafia, inizia a fare fotografie di viaggi e donne nude in pose naturali, ha bisogno di bello, deve rompere il legame con il sangue e il dolore. Negli anni 2000, tornando a Palermo, come a voler esorcizzare il passato, nasce l’idea di sovrapporre alle immagini drammatiche di morti ammazzati quelle più recenti di donne nude. Nascono così le sue rielaborazioni.
I suoi maestri sono Gabriele Basilico, Mary Ellen Mark, Diane Arbus, Joseph Koudelka, attraverso il loro lavoro ha compreso e messo a punto la sua idea di fotografia. Sembrano distanti, apparentemente, gli uni dagli altri, eppure, guardando questi maestri, trovo molto dello spirito di Letizia Battaglia, anzi sembra che in lei abiti una sintesi tra queste distinte anime.
Ho incontrato Letizia Battaglia (purtroppo mai di persona) attraverso due mostre: quella curata da Francesca Alfano Miglietti a Palazzo Reale (Milano 2019) e quella più recente (2023) alle Terme di Caracalla di Roma. L’una documentata, attenta dal punto di vista storiografico, precisa; l’altra emotiva, visivamente folgorante, e di grande impatto. Penso che non ci sia un modo giusto di raccontarla e penso che Letizia sia tutte e due le cose: fotografa per caso e artista. Si trova a fare questo mestiere da un giorno all’altro, ma la macchina fotografica non la abbandona mai più. Pur sentendosi per tutta la vita principiante, pur ammettendo di non conoscere la tecnica, asseconda il suo istinto che invece ha qualcosa di soprannaturale e incarna l’essenza dell’arte.